Bologna, dal 2014 al 2017

Il progetto “Non solo mimosa”.

Il progetto è dedicato alla salute e al benessere delle donne detenute presso la Casa Circondariale di Bologna.

E’ promosso e coordinato dalla Presidente della Commissione delle Elette, dalla Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, in stretta collaborazione con la Direzione e l’Area Educativa del carcere stesso.

L’idea progettuale ha origine nel Mandato amministrativo 2011-2016 del Comune di Bologna, dalla collaborazione tra la Garante comunale per i Diritti delle Persone private della libertà Elisabetta Laganà e la Presidente della Commissione Consiliare delle Donne Elette Maria Raffaela Ferri, a partire dall’attenzione condivisa per la condizione detentiva delle donne e dal desiderio di contribuire a rendere effettivo l’enunciato dell’Articolo 27 della Carta Costituzionale che prevede che “le pene tendano alla rieducazione del condannato”.

A seguito di alcune visite istituzionali in occasione delle Giornate internazionali della donna (8 Marzo) e per il Contrasto della violenza sulle donne (25 Novembre) è maturata l’intenzione di offrire risposte concrete ai bisogni concretissimi che venivano rappresentati dalle donne detenute. Non solo mimosa, quindi, ma una proposta progettuale di solidarietà al femminile. Il tema scelto per l’iniziativa è stato quello della salute e del benessere, da declinare in base alle specifiche esigenze delle donne detenute, ciascuna con la propria storia personale, ma tutte accomunate da percorsi di vita pesantemente segnati dalla marginalità.

Al progetto hanno aderito diverse associazioni, organizzazioni e volontarie del territorio, sviluppando una proposta varia ed articolata di attività.

L’Associazione ha proposto all’interno del progetto un Laboratorio integrato di Yoga e Shiatsu, condotto da Laura Ferrari e Stefania Ferri; un percorso di conoscenza e percezione del corpo e delle proprie sensazioni, in modo da facilitare una maggiore attenzione alla cura di sé e favorire una migliore relazione nel contatto con l’altro.

 

La detenzione femminile.

“La problematica della detenzione delle donne in carcere va compresa ed affrontata con un’ottica culturale che riconosca le differenze di genere e dunque la specificità della detenzione femminile, perché la privazione della libertà personale e la condizione di reclusione si declina con modalità ed effetti assai diversi per uomini e donne.

E’ questa una acquisizione culturale recente, che ha portato l’Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale Detenuti e Trattamento, ad elaborare strategie di intervento differenziate per gli Istituti femminili e per le Sezioni femminili all’interno degli Istituti maschili, con regolamenti specifici che tengono conto della peculiarità della detenzione delle donne.

Sia a livello europeo che internazionale molte sono le raccomandazioni che invitano gli Stati a considerare la privazione della libertà e la detenzione come punizione in quanto tale, senza aggravare la sofferenza che essa già comporta, salvo che in circostanze straordinarie giustificate dalla necessità dell’isolamento o dalle esigenze della disciplina. Al contrario, si invitano gli Istituti di pena a promuovere iniziative per mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con le proprie famiglie e con la comunità esterna, con specifica attenzione per le donne.

Tali indirizzi però non sono ancora compiutamente assimilati nelle pratiche e nella modalità di approccio di tutti gli operatori del carcere, professionali o volontari, che spesso affrontano i problemi e le difficoltà delle donne detenute allo stesso modo di quelli degli uomini.

Storicamente la struttura organizzativa del carcere è il risultato di una elaborazione culturale specificatamente maschile, che non lascia margine, perché difficilmente la riconosce, alla differenza di genere. Il carcere come è tradizionalmente organizzato è una istituzione totale concepita per gli uomini, come la caserma, con regole esplicite ed implicite rigide e predeterminate, tese a contenere aggressività e violenza, dove difficilmente trovano spazio il profilo emozionale ed il bisogno di comunicazione tipici di ogni donna, che risulta quindi mortificata nella propria identità, rinchiusa non solo nel perimetro fisico, ma anche in quello psicologico ed umano.

Le donne, generalmente proiettate verso l’elaborazione psichica e lo spazio intimo, quando perdono le possibilità d’azione tipiche della vita libera, diventano prigioniere del proprio mondo interiore e di dinamiche relazionali spesso laceranti e di regressione.

Anche le modalità di adattamento delle donne al carcere sembrano essere differenti da quelle degli uomini: a prescindere dalla durata della pena, instaurano con lo spazio e le persone un rapporto emotivo, cercando di personalizzare le celle e di rigenerare i modelli familiari ed i rapporti affettivi che la reclusione invece spezza, modifica e circoscrive. Le donne dunque ristrutturano i propri spazi ed i propri affetti durante la carcerazione, cercando di contrastare ed umanizzare il senso di anonimato e la spersonalizzazione della detenzione”.

Dalla presentazione del Convegno: “Non solo mimosa. Per la salute ed il benessere delle donne detenute della Casa Circondariale di Bologna”, Bologna, 26 Febbraio 2016